Cass. Pen., Sez. 3, 24 giugno 2025 (data ud. 28 maggio 2025), n. 23449, Pres. L. Ramacci, Rel. V. Pazienza; Cass. Pen., Sez. 3, 24 giugno 2025 (data ud. 28 maggio 2025), n. 23452, Pres. L. Ramacci, Rel. V. Pazienza; Cass. Pen., Sez. 3, 29 luglio 2025 (data ud. 18 giugno 2025), n. 27716, Pres. G. Sarno, Rel., M.C. Amoroso; Cass. Pen., Sez. 3, 29 luglio 2025 (data ud. 11 luglio 2025), n. 27725, Pres.V. Di Nicola, Rel. L.A. Bucca; Cass. Pen., Sez. 3, 29 luglio 2025 (data ud. 11 luglio 2025), n. 27726, Pres.V. Di Nicola, Rel. L.A. Bucca
*Contributo pubblicato nel fascicolo 9/2025.
Leggi le sentenze: 23449/2025; 23452/2025; 27716/2025; 27725/2025; 27726/2025.
1. Negli ultimi mesi la Corte di Cassazione è tornata in più occasioni a pronunciarsi in materia di false dichiarazioni rese dai percettori del reddito di cittadinanza, con riferimento al requisito della residenza decennale in Italia, fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 7[1] del d.l. n. 4/2019, conv. in l. n. 26/2019 (e oggi abrogata, a decorrere dal 1gennaio 2024, ad opera della legge di bilancio 2023 e del successivo intervento “riparatore” rappresentato dal d.l. 4 maggio 2023, n. 48, che ha introdotto una deroga alla retroattività della lex mitior in relazione ai mendaci commessi sino alla fine dell’anno 2023)[2].
Si fa, in particolare, riferimento, alle sentenze della Terza Sezione della Suprema Corte n. 23449 e n. 23452 del 24 giugno 2025 (data ud. 28 maggio 2025); n. 27716 del 29 luglio 2025 (data ud. 18 giugno 2025); e nn. 27725 e 27726 del 29 luglio 2025 (data ud. 11 luglio 2025).
Trattandosi di decisioni che, nella parte motiva e nelle argomentazioni, risultano pressoché sovrapponibili, se ne darà conto con trattazione unitaria. Esse meritano, ad ogni modo, di essere segnalate, in quanto prendono atto delle rilevanti novità intervenute nel quadro normativo a seguito delle sentenze della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 29 luglio 2024 (cause riunite C-112 e C-223), e della Corte costituzionale n. 31 del 20 marzo 2025, che hanno dichiarato illegittimo il requisito del possesso della residenza decennale in Italia richiesto dall’art. 2 d.l. 4/2019[3] ai fini dell’ottenimento del beneficio del reddito di cittadinanza, sostituendolo, come si avrà modo di analizzare, con quello della residenza quinquennale; di conseguenza – ed è quel che più interessa nella prospettiva penalistica – hanno inciso in modo determinante sulla stessa configurazione delle fattispecie astratte di reato disciplinate dall’art. 7 sopra citato, con evidenti ripercussioni sui procedimenti penali (pendenti e passati in giudicato) inerenti alle false dichiarazioni circa il possesso di tale requisito.
A commento delle decisioni, ci si soffermerà, soprattutto, sul quadro normativo risultante dalle decisioni delle Alte Corti; qualche breve considerazione verrà poi rivolta, perché specificamente trattata da alcune delle pronunce qui commentate, al tema delle vicende successorie che hanno interessato l’art. 7 d.l. 4/2019 e a quello dell’ignoranza o dell’errore circa la sussistenza del diritto a percepire l’erogazione del beneficio.
Prima di procedere in tal senso, appare, tuttavia, opportuno ripercorrere le vicende processuali che hanno dato origine ai giudizi definiti con le sentenze in commento.
2. Le vicende all’origine delle pronunce in commento riguardano tutte cittadini stranieri che, tramite intermediari abilitati, avevano presentato domanda di reddito di cittadinanza dichiarando falsamente di possedere il requisito della residenza decennale in Italia (di cui gli ultimi due anni in maniera continuativa).
La prima sentenza che ha affrontato la questione della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 7 d.l. n. 4/2019 a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia UE e del successivo intervento manipolativo della Corte Costituzionale è la n. 23449 del giugno scorso; l’imputato si era visto riformare in appello una sentenza assolutoria emessa in primo grado dal Tribunale di Vibo Valentia, per non aver comunicato di non aver risieduto continuativamente in Italia negli ultimi due anni a far data dalla presentazione della richiesta del c.d. reddito di cittadinanza. Avverso la condanna, proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, lamentando, per quanto qui di interesse, la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità, richiamando la recente sentenza della Corte di Giustizia che ha escluso la possibilità di sanzionare penalmente una falsa dichiarazione riguardante il requisito della residenza.
Il secondo caso, in ordine cronologico, sottoposto al vaglio della Suprema Corte (sent. n. 23452/2025) concerneva una cittadina rumena imputata per avere, in due distinte circostanze, reso dichiarazioni mendaci in ordine al possesso del requisito della residenza decennale. In particolare, pur avendo trasferito la propria residenza in Italia soltanto l’11 febbraio 2016, la stessa presentava istanza di accesso al beneficio il 7 maggio 2020 – in assenza anche del requisito quinquennale di residenza – e nuovamente il 31 dicembre 2021, allorché risultava, invece, maturato il solo requisito di residenza quinquennale, ma non quello decennale. Anche in tale occasione il ricorso per cassazione avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro veniva proposto dal difensore dell’imputata, il quale, senza formulare censure specificamente riferite alle pronunce delle Alte Corti richiamate, deduceva motivi attinenti, da un lato, alla ritenuta prova della sottoscrizione, da parte della richiedente, del modulo contenente la dichiarazione mendace, e, dall’altro, alla mancata effettuazione di adeguati approfondimenti istruttori circa l’effettiva presenza della stessa sul territorio nazionale.
Anche nel caso relativo alla sentenza n. 27716/2025, in cui l’imputato straniero era stato assolto nei gradi di merito dalla Corte d’appello di Catanzaro – a conferma della pronuncia di primo grado del Tribunale di Lamezia Terme – per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p., il difensore proponeva ricorso per cassazione, chiedendo l’assoluzione nel merito e articolando tre motivi. Per quanto qui maggiormente interessa, con un primo motivo si deduceva la violazione di legge in relazione all’art. 136 Cost., proprio richiamando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del luglio 2024, che ha dichiarato incompatibile con il diritto UE e con il principio di non discriminazione il requisito della residenza decennale per l’accesso al beneficio, nonché la correlata sanzione penale per falsa dichiarazione sul possesso di tale requisito. Secondo la difesa, detta pronuncia, per la sua valenza di rango costituzionale, avrebbe prodotto effetti analoghi a un’abolitio criminis, impedendo la perseguibilità dell’imputato. Con un secondo motivo si lamentava la violazione degli artt. 192, commi 1 e 2, e 530 c.p.p., sostenendo che nei precedenti gradi di giudizio non era stata raggiunta la prova della paternità della domanda da parte dell’imputato, essendo stata la stessa inoltrata da un intermediario abilitato senza che vi fosse dimostrazione di un incarico conferito. Con il terzo motivo si denunciava, invece, il vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte d’appello escluso la riconducibilità della condotta a un errore scusabile, nonostante l’imputato si fosse affidato a un intermediario qualificato che avrebbe dovuto informarlo della mancanza del requisito necessario. Infine, con motivi aggiunti depositati il 30 maggio 2025, la difesa richiamava espressamente la sentenza n. 31/2025 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 4/2019, nella parte in cui prevedeva per l’accesso al beneficio del reddito di cittadinanza la necessità del possesso del requisito della residenza in Italia “per almeno 10 anni” anziché “per almeno 5 anni”. Veniva così evidenziato come la condotta dell’imputato fosse ormai priva di rilevanza penale, poiché al momento della domanda, presentata il 29 gennaio 2021, egli risultava residente in Italia da oltre cinque anni (ossia dal 10 dicembre 2014), pur senza aver maturato il requisito decennale.
Diversamente, nei casi relativi alle sentenze nn. 27725 e 27726 del luglio 2025, i richiedenti, al momento della presentazione della domanda, non avevano ancora maturato neppure il requisito di una permanenza quinquennale sul territorio nazionale ed erano stati condannati in relazione al reato di cui all’art. 7 d.l. 4/2019 rispettivamente dalla Corte d’Appello di L’Aquila e dalla Corte d’Appello di Torino.
Nel caso della sentenza n. 27725 la doglianza difensiva principale riguardava la violazione di legge e il vizio di motivazione per intervenuta abrogazione della norma incriminatrice ad opera dell’art. 318 l. n. 197/2022; nel caso della sentenza n. 27726, invece, i motivi di impugnazione si concentravano, da un lato, sul quantum di pena inflitta, sia in relazione alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., sia per la sproporzione della stessa, ritenuta esageratamente elevata ed afflittiva (l’imputato era stato condannato alla pena sospesa di un anno e quattro mesi); inoltre, in entrambi i casi i difensori deducevano il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della decisione e la violazione o l’erronea applicazione della legge penale, sostenendo l’insussistenza del reato contestato, in quanto la condotta degli imputati rientrerebbe nell’ipotesi di errore su legge diversa da quella penale, essendosi affidati a un centro di assistenza fiscale per l’inoltro della domanda, senza avere piena consapevolezza di quanto sottoscritto.
A prescindere dalle peculiarità dei singoli casi e dei singoli motivi di gravame proposti, come si è già anticipato in premessa, il tema centrale che qui interessa – e che è stato approfondito nella parte motiva delle sentenze della Suprema Corte prese in analisi, con argomentazioni, come già si è evidenziato, di fatto sovrapponibili – attiene alla sussistenza del reato di cui all’art. 7 d.l. 4/2019, in relazione al mendacio inerente il possesso del requisito della residenza decennale, a seguito delle pronunce della Grande Camera della Corte di Giustizia del luglio 2024 e della sentenza “sostitutiva” della Consulta n. 31/2025.
3. In questa prospettiva, tutte le pronunce qui analizzate della Suprema Corte muovono dalla ricostruzione del quadro giuridico-normativo relativo al reato di “falso” sul possesso del requisito di residenza decennale nell’ambito della procedura per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, quale ridisegnato proprio dalle decisioni delle Alte Corti sopra richiamate[4].
Da un lato, si ricorda come la Corte di Giustizia UE abbia ritenuto (indirettamente) discriminatorio il vincolo di residenza decennale previsto per l’accesso al beneficio, con particolare riferimento ai soggiornanti di lungo periodo. Richiamando l’art. 11 della Direttiva 2003/109/CE – che garantisce loro parità di trattamento con i cittadini nazionali nell’accesso alle prestazioni sociali, all’assistenza e alla protezione sociale – la Corte ha dichiarato che tale disposizione osta “alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo”, e “che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza”.
Tuttavia, come ben sottolineato dalla Corte di Cassazione in tutte le pronunce analizzate, il presupposto da cui muovono le riflessioni e la decisione della CGUE è la (controversa) qualificazione giuridica del reddito di cittadinanza come prestazione di natura sociale, assistenziale o di protezione sociale. Tale impostazione, prospettata dal giudice a quo (il Tribunale di Napoli), ma da cui, come si vedrà, la Corte costituzionale ha preso le distanze nella sentenza n. 31/2025, costituisce il fondamento logico attraverso cui la Corte di Giustizia ha ritenuto discriminatorio e contrario al diritto UE il requisito di radicamento territoriale. Diversa era stata invece la posizione del Governo italiano, che nel giudizio dinanzi alla Grande Sezione aveva insistito sulla natura “complessa” del sussidio, finalizzato in primo luogo all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo. Nonostante ciò, la Corte di Giustizia ha ritenuto di non potersi discostare dalla qualificazione operata dal giudice del rinvio: in coerenza con la propria giurisprudenza, ha infatti precisato che il controllo sull’esattezza della qualificazione giuridica del sussidio spetta esclusivamente ai giudici interni, mentre alla Corte compete unicamente valutare la compatibilità di tale qualificazione, così come prospettata dal giudice nazionale, con il diritto dell’Unione.
A seguito di tale pronuncia è intervenuta, come già anticipato, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 31 del 2025, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., dell’art. 2 D.L. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019) "nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia "per almeno 10 anni", anziché prevedere “per almeno 5 anni". La questione di legittimità costituzionale del requisito di residenza decennale era stata sollevata dalla Sezione Lavoro della Corte d'Appello di Milano nell'ambito di un procedimento avviato da due richiedenti il reddito di cittadinanza contro l’INPS.
La Corte costituzionale, pur esplicitamente confrontandosi con la sentenza della Grande Sezione della CGUE sopra brevemente analizzata, se ne è, tuttavia, esplicitamente discostata quanto alla qualificazione del reddito di cittadinanza come misura meramente assistenziale.
La Consulta ha ribadito la natura peculiare del reddito di cittadinanza, in cui il sostegno economico è inscindibilmente legato a finalità di inclusione sociale e reinserimento lavorativo, attraverso obblighi stringenti per il beneficiario (dichiarazione di disponibilità al lavoro, partecipazione a percorsi di accompagnamento e ricerca attiva, accettazione di offerte congrue). Da ciò la Corte ha desunto che non si tratti di un semplice sussidio destinato a soddisfare i bisogni primari, ma di una misura complessa, fondata su temporaneità e condizionalità, la cui violazione comporta la perdita del beneficio. In questa prospettiva, ha riaffermato la propria lettura costituzionalmente orientata, rilevando che la CGUE non aveva verificato la correttezza della qualificazione operata dal giudice nazionale, rimettendo tale valutazione agli organi interni competenti, ossia alla stessa Corte costituzionale. Proprio per questo motivo la Consulta non si è ritenuta vincolata dalla declaratoria di illegittimità del requisito decennale di residenza operata dalla Corte di Giustizia e ha affermato che, data la natura non meramente assistenziale del Rdc, una clausola di radicamento territoriale non è di per sé irragionevole. Ha tuttavia precisato che tale requisito deve rispettare criteri di proporzionalità e non tradursi in discriminazioni indirette, dichiarando fondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. della previsione contenuta nell’art. 2 d.l. 4/2019, nella parte in cui stabilisce rigidamente dieci anni di residenza, a fronte del termine quinquennale previsto tanto per il permesso di lungo soggiorno quanto da altre normative nazionali ed europee.
Richiamando anche la Raccomandazione del Consiglio UE del 30 gennaio 2023 sul reddito minimo, la Consulta ha quindi sostituito il termine decennale con quello quinquennale, già ritenuto ragionevole in proprie precedenti pronunce.
In tal modo, la sentenza n. 31 del 2025 ha armonizzato il quadro interno con il diritto dell’Unione e con la stessa giurisprudenza della CGUE, eliminando con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale la clausola della residenza decennale: si legge testualmente nella sentenza della Corte che, per effetto di tale proprio intervento sostitutivo, si giunge a ricomporre "armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall'ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l'ordinamento dell'Unione europea"[5].
4. Ricostruiti brevemente i passaggi logico-argomentativi delle decisioni delle Alte Corti, la Cassazione, in tutti i casi analizzati, ha ritenuto di non discostarsi dai principi enunciati dalla Consulta nella sentenza n. 31/2025 sia in ordine al concreto inquadramento delle disposizioni in tema di R.d.C e alla natura del sussidio, sia avuto riguardo alla ritenuta piena compatibilità con il sistema europeo e costituzionale di un requisito comprovante un apprezzabile radicamento del richiedente, affermando la “piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione volta a sanzionare penalmente la non rispondenza al vero delle dichiarazioni rese, in sede di richiesta del beneficio, con riferimento alla previa residenza (pur nel limite di cinque anni, quanto alla durata)”.
Secondo i giudici di legittimità ciò impone di ritenere tutt’ora penalmente rilevante la condotta di chi abbia falsamente dichiarato di essere presente in Italia da più di dieci anni avendo, invece, risieduto da meno di cinque anni; al contrario “per effetto della sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, che ha ridisegnato i contorni della fattispecie incriminatrice nel senso prima indicato” deve essere “esclusa la persistenza del rilievo penale delle condotte, poste in essere prima della decisione della Consulta, che non siano più riconducibili alla rimodellata fattispecie incriminatrice”[6]; perdono, quindi, rilevanza penale i mendaci sul requisito della residenza decennale resi da parte di coloro che, al momento della richiesta e della falsa dichiarazione, risiedevano in Italia da almeno 5 anni.
I giudizi oggetto delle pronunce analizzate si sono quindi conclusi, in base al caso specifico, in una conferma della sentenza di condanna di merito (con dichiarazione di inammissibilità del ricorso) per i casi in cui al momento della richiesta del beneficio (e, quindi, del mendacio) l’imputato fosse residente in Italia da meno di cinque anni; mentre in un’assoluzione (con la formula “perché il fatto non costituisce reato”) – o riforma, con o senza rinvio, delle sentenze di merito – per il caso di falsa dichiarazione sul requisito decennale di residenza da parte di richiedente residente in Italia al momento della richiesta del sussidio da almeno cinque anni[7].
5. Per completezza, è doveroso, da ultimo, evidenziare come alcune delle pronunce qui analizzate si siano concentrate su altri due temi altrettanto centrali nella disciplina del reddito di cittadinanza e, più in particolare, nell’applicazione dell’art. 7 citato, senza tuttavia apportare particolari novità al quadro giurisprudenziale interpretativo ormai consolidato.
Si fa anzitutto riferimento alle vicende intertemporali che hanno interessato il sussidio e, conseguentemente, i reati previsti dall’art. 7 d.l. 4/2019.
Si ricordi come con la legge di bilancio 2023[8], il legislatore ha disposto l’abrogazione dell’intero Capo I del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, con effetto dal 1° gennaio 2024, determinando la cancellazione differita anche delle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 7 del medesimo decreto. Per correggere questa anomalia, che aveva sollevato complesse questioni di diritto intertemporale[9], il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, istitutivo dell’“assegno di inclusione”, ha introdotto una deroga alla regola generale della retroattività della lex mitior rispetto alle condotte rientranti nell’ambito applicativo dell’art.7 d.l. 4/2019 realizzati entro la fine del 2023, chiarendo tramite l’art. 13, comma 3, che fino al 31 dicembre 2023 continua a trovare applicazione tale disposizione, di fatto sancendo la vigenza sino a tale data delle incriminazioni relative a condotte di falsificazione o indebita percezione del sussidio e confermandone l’eliminazione a decorrere dal 2024.
Ciò ha posto in dottrina il tema, oggetto di contrasto, della corretta individuazione del momento in cui si fosse verificato il fenomeno abrogativo e della connessa applicazione retroattiva della lex mitior. Tralasciando l’analisi delle diverse posizioni dottrinarie[10], poiché esorbita dagli scopi della presente trattazione, occorre, tuttavia, evidenziare come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione abbiano accolto la ricostruzione per cui l’effetto abrogativo delle fattispecie penali decorra pacificamente a far data dal 1 gennaio 2024, come stabilito dal legislatore; inoltre hanno affermato che l’intervento correttivo del maggio 2023 abbia comportato una legittima deroga al principio di retroattività della lex mitior (altrimenti conseguente, ex art. 2, comma 2, cp, alla prevista abrogazione dell’articolo 7) sorretta da una del tutto ragionevole giustificazione, poiché finalizzata a fornire una tutela penale all’erogazione del reddito di cittadinanza sin tanto che sia stato possibile continuare a fruire di tale beneficio.
Nella sentenza n. 27725/2025 qui in analisi, la Suprema Corte, rispondendo a una specifica doglianza difensiva sul punto, ha avuto modo di allinearsi all’orientamento citato – che è stato, peraltro, avallato anche dalla Corte costituzionale, con l’ordinanza del 22 febbraio 2024 (dep. 29 marzo 2024) n. 54 – e ha avuto occasione di ribadire che: “l’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l’art 7 d.l. n. 4 del 2019, a decorrere, però, dal 1° gennaio 2024. Il legislatore, peraltro, nell’introdurre il c.d. “assegno di inclusione” (…) ha contestualmente ed espressamente previsto che al Rdc continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023. Alla data di adozione della sentenza impugnata, quindi, l’art. 7 d.l. n. 4/2019 era ancora in vigore per cui il reato ascritto all’imputata non poteva dirsi abrogato”[11].
Circa l’operatività del principio di retroattività della lex mitior, la Suprema Corte ha, inoltre, precisato che esso “è impedito dall’art. 13, comma 3 del d.l. n. 48 del 2023, conv., con modif., dalla l. 3 luglio 2023 n. 85”. Infatti, “pur in difetto di una formale qualificazione in tal senso, alla disposizione di cui all’art. 13, comma 3, d.l. 48/2023, può riconoscersi la natura sostanziale di disposizione transitoria, per assolvere essa propriamente a quelle esigenze di concreta opportunità insorgenti a causa dell’entrata in vigore di una nuova legge nella contestuale pendenza di rapporti, compresi nella materia da essa regolata, i quali siano stati costituiti sotto l’impero di una legge precedente, e debbano ancora svolgere, in tutto o in parte, il loro contenuto … legge temporanea che, come tale, è sottratta al generale principio di cui all’art. 2 cod. pen, per espressa previsione del comma 5 del citato articolo”[12]. Da ultimo, la Corte ha evidenziato come tale deroga sia “indubbiamente sorretta da una giustificazione del tutto ragionevole. E, invero, essa semplicemente assicura tutela penale all’erogazione del reddito di cittadinanza (…) sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio, così coordinandosi con la sua prevista soppressione a far tempo dal 1/1/2024 e con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 D.L. 48/2023, che, strutturata in termini del tutto identici e riferita agli analoghi benefici per il futuro introdotti in sostituzione del reddito di cittadinanza, continua a prevedere il medesimo disvalore penale delle condotte di mendacio e di omessa comunicazione volte all’ottenimento o al mantenimento delle nuove provvidenze economiche”[13].
6. Da ultimo, tema ricorrente nelle pronunce analizzate è quello dell’ignoranza o dell’errore circa la sussistenza del diritto a percepire l’erogazione del beneficio[14].
In particolare, nei processi per falsi riguardanti il requisito della residenza decennale, non è raro che le difese segnalino come molti cittadini stranieri si rivolgano a intermediari autorizzati per compilare e presentare la domanda, mentre i CAF forniscano informazioni insufficienti sui requisiti previsti dalla legge. Tale circostanza potrebbe indurre a ritenere che il richiedente, confidando nell’operato di un soggetto abilitato ex lege, si sia basato su indicazioni parziali o inesatte, maturando l’erronea convinzione di possedere i requisiti richiesti e, quindi, di avanzare una domanda legittima, nonostante l’effettiva mancanza del requisito della residenza. In altre parole, l’agente, pur consapevole della rilevanza penale in astratto di dichiarazioni mendaci finalizzate a ottenere indebitamente prestazioni assistenziali, ritiene in concreto, per errore, di esercitare un diritto spettantegli.
In tale contesto, si pongono due questioni.
In primis quella di qualificare l’eventuale errore su legge diversa da quella penale (ovvero sull’art. 2 d.l. 4/2019, che elenca i requisiti reddituali, patrimoniali e personali necessari per accedere al sussidio) in cui sia incorso il richiedente quale errore di diritto sul fatto, con conseguente applicazione dell’art. 47, comma 3 c.p., ovvero quale errore che ricade sul precetto penale, ex art. 5 c.p.
Sul punto, la Suprema Corte, nelle sentenze qui commentate che affrontano specificamente la tematica, aderisce all’orientamento ormai costante, sia nella giurisprudenza di merito che di legittimità[15], per cui “in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (…) si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7”.
Un secondo nodo problematico riguarda, invece, la possibilità di attribuire all’errore sulla legge penale efficacia scusante ai sensi dell’art. 5 c.p., come interpretato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza del 1988[16].
Sul punto, le pronunce analizzate si mostrano particolarmente rigorose: richiamando alcuni precedenti di legittimità, esse escludono tout court che l’errore circa la sussistenza del diritto a percepire il beneficio possa integrare un’ipotesi di inevitabile ignoranza della legge penale. Secondo i giudici, infatti, la disciplina sul reddito di cittadinanza non presenta profili di opacità o complessità tali da rendere oscuro il precetto e giustificare, pertanto, l’applicazione della causa di esclusione della colpevolezza[17].
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7. Passando a un breve commento delle pronunce esaminate, si può anzitutto notare come la Corte di Cassazione abbia inevitabilmente preso atto, da un lato, della presa di posizione circa la natura del sussidio operata dalla Consulta, che, come già evidenziato, ne ha escluso la natura meramente assistenziale[18], e, dall’altro, della modificazione intervenuta sul requisito del radicamento territoriale nell’art. 2 d.l. 4/2019, ridotto a seguito della pronuncia n. 31/2025 della Corte Cost. da dieci a cinque anni.
Tuttavia, è doveroso rilevare come tutte le pronunce presentino un’argomentazione sostanzialmente apodittica riguardo alle conseguenze derivanti dal suddetto intervento sostitutivo rispetto alle fattispecie penali previste dall’art. 7, facendo la Suprema Corte derivare automaticamente dall’illegittimità del requisito di residenza decennale previsto dall’art. 2 – sostituito dal requisito quinquennale – l’assenza di responsabilità penale per i richiedenti che abbiano dichiarato falsamente di risiedere sul territorio da dieci anni, pur risiedendovi effettivamente da almeno cinque anni; e, al contrario, ritenendo che le condotte di falso relative al requisito di residenza decennale commesse da chi si trovava in Italia da meno di cinque anni continuino ad avere rilevanza penale.
È opportuno sin da subito mettere in luce come la Corte costituzionale abbia dichiarato l’illegittimità del solo requisito di residenza decennale contenuto nell’art. 2, e non anche direttamente dell’art. 7 del d.l. 4/2019 (come invece aveva fatto la Corte di Giustizia UE, la quale aveva ritenuto direttamente incompatibile con il diritto dell’Unione la fattispecie penale di falso riferita a tale requisito). La diversa impostazione richiede, per valutare la correttezza delle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte e le conseguenze della dichiarazione di illegittimità del requisito di residenza sull’ambito applicativo dell’art. 7, di chiarire se l’art. 2 debba essere considerato o meno norma integratrice del precetto penale previsto dall’art. 7 del d.l. 4/2019, come sembra presupporre la stessa Suprema Corte.
Altrove[19], chi scrive aveva già tentato di argomentare come l’applicazione rigorosa del criterio strutturale porti a ritenere che le norme extrapenali richiamate implicitamente dall’art. 7 d.l. 4/2019 (ovvero l’art. 2 del medesimo decreto e i requisiti ivi contenuti) siano solo apparentemente integratrici della fattispecie penale, potendosi ritenere realmente integratrici, in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (a partire dalla sentenza Magera) solo le norme richiamate da fattispecie penali in bianco e le norme definitorie[20]: tali non sono le fattispecie contenute nell’art. 7 del decreto, risultando, nel caso considerato, per effetto della dichiarazione di illegittimità della disciplina extrapenale, immutata la fisionomia della fattispecie.
Inoltre, si era rilevato come solo ammettendo che le fattispecie contenute nell’art. 7 costituiscano un esempio di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi normativi di natura giuridica (e che richiamino implicitamente i requisiti oggettivi e soggettivi per l’ottenimento del beneficio elencati nell’art. 2 del decreto), allora la dichiarazione di illegittimità costituzionale del requisito di residenza decennale farebbe automaticamente fuoriuscire dalla condotta materiale di mendacio ogni affermazione connessa.
Nelle sentenze prese qui in analisi, sembra che la Suprema Corte – seppur implicitamente – ragioni proprio in questi termini: ciò lo si evince non tanto dall’argomentazione sul punto, che, come si è detto, risulta apodittica, quanto piuttosto dalle riflessioni svolte in alcune sentenze analizzate in tema di errore circa la sussistenza del diritto a percepire l’erogazione (si veda supra punto 6), laddove la Suprema Corte afferma esplicitamente che l’art. 2 d.l. 4/2019 integra il precetto penale di cui all’art. 7 citato. È proprio sulla base di tale presupposto che la Corte sembra faccia discendere automaticamente l’assenza di responsabilità penale dei richiedenti il sussidio che abbiano reso la falsa dichiarazione, pur nel rispetto del requisito quinquennale di residenza[21].
A prescindere dalla correttezza o meno dell’impostazione adottata, a parere di chi scrive, la questione si riduce, in fondo, a un problema meramente qualificatorio, privo di ricadute pratiche apprezzabili. Infatti, nel caso del RdC e del requisito di radicamento territoriale, anche qualificando (più correttamente) l’art. 2 d.l. 4/2019 quale norma solo apparentemente integratrice del precetto, si giungerebbe, comunque, al medesimo esito cui sono giunte le pronunce qui commentate: ossia, al riconoscimento dell’irrilevanza penale delle dichiarazioni mendaci relative al requisito della residenza rese da soggetti che abbiano maturato il nuovo termine quinquennale, e, per converso, della persistente rilevanza penale delle condotte poste in essere da chi non abbia ancora soddisfatto tale requisito.
Ciò se si tiene conto della configurazione della fattispecie di cui all’art. 7, comma 1 quale reato di pericolo concreto e della sua connotazione plurioffensiva (poiché posta a tutela, da un lato, dell’ottemperanza al dovere di lealtà del cittadino verso l’amministrazione; dall’altro del patrimonio pubblico, e, più in particolare, della corretta erogazione delle risorse pubbliche). Si consideri, sul punto, il recente arresto delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. n. 49686 del 13.7.2023[22], intervenute a dirimere un contrasto interpretativo sull’ambito applicativo dell’art. 7 d.l. n. 4/2019. Senza entrare nel merito delle argomentazioni, la Suprema Corte, nella pronuncia citata, ha chiarito come il fine di ottenere indebitamente il beneficio rappresenti l’elemento che delimita la portata incriminatrice della fattispecie, consentendo di escludere la rilevanza penale di tutte le condotte di mendacio che non siano idonee a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dell’integrità del patrimonio dell’ente erogatore. Ne consegue l’atipicità, per difetto di offensività, della condotta di chi, pur avendo tutti i requisiti per accedere legittimamente al reddito di cittadinanza, rilasci una dichiarazione non veritiera nella domanda di accesso al beneficio.
Alla luce di tali principi, è pacifico che, a seguito dell’intervento manipolativo della Consulta, i falsi inerenti al requisito della residenza decennale commessi da soggetti che, al momento della richiesta del sussidio, erano residenti in Italia da oltre cinque anni non siano penalmente rilevanti. Infatti, come chiarito dalle Sezioni Unite, l’art. 7 incrimina soltanto le condotte mendaci di chi, in concreto, fosse privo dei requisiti di legge per ottenere il sussidio, cioè quelle effettivamente idonee a ledere o mettere in pericolo non solo la pubblica fede ma anche l’integrità delle risorse pubbliche. Ne deriva che il richiedente che, al momento della domanda, avesse già maturato il requisito di residenza quinquennale (di cui due anni continuativi), pur avendo reso una dichiarazione non veritiera, era comunque titolare del diritto al beneficio, poiché il requisito decennale di residenza non ci sarebbe mai dovuto essere: la falsità, nel caso considerato, non ha, infatti, inciso né sull’an né sul quantum dell’erogazione. Rimangono invece penalmente rilevanti le dichiarazioni mendaci rese da chi non avesse ancora conseguito il requisito quinquennale, poiché, anche dopo l’intervento sostitutivo della Consulta, tali soggetti restano privi dei requisiti necessari per accedere al beneficio, rendendo indebita qualsiasi erogazione conseguente alla falsa dichiarazione.
8. Un’ultima, breve, considerazione merita di essere riservata al tema dell’errore inescusabile circa il diritto a percepire il sussidio da parte del richiedente.
In precedenti occasioni[23] si è già avuto modo di evidenziare come, pur a fronte della tesi che qualifica l’ignoranza o l’errore sul requisito di residenza decennale come errore sul precetto – con conseguente applicazione dell’art. 5 c.p. – risulti più persuasivo ricondurre tale ipotesi a un errore su norma extrapenale, che si traduce in errore sul fatto costituente reato e, dunque, esclude il dolo ai sensi dell’art. 47, comma 3, c.p.[24]
Tuttavia, la giurisprudenza sul tema, tanto di merito quanto di legittimità, e a cui aderiscono anche le sentenze qui commentate, si mantiene ferma nel ricondurre l’ipotesi considerata all’errore sul precetto, aderendo al prevalente orientamento della Cassazione che si fonda sulla c.d. tesi dell’incorporazione, indirizzo che di fatto opera una interpretatio abrogans del terzo comma dell’art. 47, comma 3, c.p.[25].
Ciò che, tuttavia, desta maggiori perplessità nelle pronunce esaminate è l’affermazione tranchant circa l’impossibilità di riconoscere, nel caso in questione, l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale e, conseguentemente, di escludere la colpevolezza del richiedente che sia incorso in errore, che si fonda sulla considerazione dell’assenza di elementi di cripticità o di oscurità nelle disposizioni relative al reddito di cittadinanza, ritenute non suscettibili di generare un errore sulla legge penale.
In realtà, ed è insegnamento della stessa Consulta nella già citata sentenza n. 364/1988, l’ignoranza “inevitabile” può essere misurata tanto in base a “criteri oggettivi puri”, quanto in base a “criteri misti”. Vi sono, in altre parole, casi di oggettiva “impossibilità di conoscenza della legge per ogni consociato”, per l’ipotesi di assoluta oscurità del testo legislativo o di caos interpretativo degli organi giudiziari; accanto a tali ipotesi vi sono, però, anche casi in cui, pur a fronte di una norma apparentemente chiara, qualsiasi persona, nelle stesse condizioni (oggettive e soggettive) dell’agente, cadrebbe nel suo stesso errore di diritto. Per distinguere l’ignoranza inevitabile (scusabile) dall’ignoranza evitabile (inescusabile), applicando i criteri misti, oggettivi e soggettivi, quindi, l’errore sul precetto è inevitabile quando sia determinato da particolari, positive circostanze in cui si è formata la deliberazione criminosa. Tra queste rientrano per giurisprudenza pacifica le indicazioni fuorvianti da parte delle autorità competenti[26].
Pur ammettendo, dunque, l’applicabilità dell’art. 5 c.p. al caso considerato, il giudice non dovrebbe esimersi dal valutare elementi quali il grado di integrazione sociale del richiedente e le informazioni effettivamente fornite dagli operatori incaricati della presentazione della domanda, al fine di accertare la scusabilità dell’ignoranza o dell’errore che ha indotto il richiedente a dichiarare falsamente il requisito della residenza decennale. In questa prospettiva si collocano alcune pronunce di merito[27] che, valorizzando condizioni oggettive, tra cui proprio il ruolo degli operatori del CAF, e circostanze soggettive dei richiedenti, come la difficoltà di comprensione della lingua italiana, hanno riconosciuto la scusabilità dell’errore, assolvendo imputati che avevano dichiarato di risiedere in Italia da almeno dieci anni.
Ne discende che la valutazione dell’inevitabilità dell’errore non possa essere esclusa aprioristicamente ancorandosi alla sola chiarezza della disposizione di cui all’art. 7, ma richieda un accertamento caso per caso.
[1] Si ricordi come l’art. 7 d.l. 4/2019 punisse al suo primo comma con la pena della reclusione da due a sei anni la condotta di chi «al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute». Il comma 2 dell’art. 7 puniva, invece, con la reclusione da uno a tre anni «l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio» entro i termini previsti dalla legge.
[2] Sulle vicende intertemporali che hanno interessato la fattispecie di cui all’art. 7 d.l. 4/2019 si rinvia a: G.L. Gatta, Reddito di cittadinanza e “abrogatio per aberratio” delle norme penali: tra abolitio criminis e possibili rimedi, in questa Rivista, 3/2023, pp. 69 ss. In tema anche: M. Riccardi, Nella furia di colpire i poveri, hanno finito per premiare i truffatori”. Reati in materia di reddito di cittadinanza e meccanismi di abrogazione “annunciata” o differita: un problema reale (di abolizione) o solo apparente (di interpretazione)?, in Giurisprudenza Penale web, 2023, 5, pp. 1 ss.; L. Messori, Risvolti intertemporali dell’abrogazione del reddito di cittadinanza e dell’introduzione del reddito di inclusione: una deroga ragionevole alla retroattività favorevole con il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, in Giurisprudenza penale web, 2023, 6, pp. 1 ss.; I. Giacona, False informazioni per ottenere il reddito di cittadinanza o l’assegno d’inclusione, nel groviglio della disciplina sulle indebite percezioni, in questa Rivista, 30 luglio 2024.
[3] L’art. 2 del d.l. 4/2019 prevedeva, per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, oltre ad alcuni requisiti patrimoniali e reddituali, anche alcuni requisiti di natura personale. In particolare, tra i beneficiari del sussidio, ricomprendeva i nuclei familiari in cui il richiedente fosse cittadino italiano, cittadino di uno Stato membro dell’UE (o suo familiare) titolare del diritto di soggiorno o di soggiorno permanente, oppure cittadino di Paese terzo soggiornante di lungo periodo (art. 2, co. 1, lett. a), n. 1). Il richiedente doveva, inoltre, risiedere in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo (art. 2, co. 1, lett. a), n. 2). Infine, non doveva essere sottoposto a misura cautelare personale o condannato per alcuni reati nei dieci anni precedenti (art. 2, co. 1, lett. c-bis).
[4] Per un’analisi della pronuncia della corte di Giustizia UE del 29 luglio 2024, si vedano: A. Guariso, Incompatibile con il diritto UE il requisito di dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza. Nota alla sentenza della corte di giustizia del 29 luglio 2024, causa c-112/22, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2024; W. Chiaromonte, Il reddito di cittadinanza (per gli stranieri lungosoggiornanti) è morto, viva il reddito di cittadinanza! Note a margine di Corte giust. 29 luglio 2024, cause riunite C-112/22 e C-223/22, in RDSS, 1, 2025, pp. 753 ss.; M. Mc Britton, La Corte di Giustizia contesta la legittimità del requisito di residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza per i cittadini extra UE, in RGL, 1, 2025, pp. 127 ss.; G. Pistore, La Corte di Giustizia si pronuncia sul requisito di residenza per l’accesso al reddito di cittadinanza da parte dei cittadini di Paesi terzi, in DRI, 1, 2025, pp. 286 ss.
Sui possibili effetti della pronuncia della Corte di Giustizia sui procedimenti penali per falso inerenti al requisito di residenza decennale sia consentito il rinvio a: P. Brambilla, La natura discriminatoria del requisito della residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza: gli effetti della sentenza c-112/22 e c-223/22 della Corte di Giustizia UE sui procedimenti penali per false dichiarazioni nella richiesta del beneficio, in questa Rivista, fasc. 1/2025, pp. 89 ss.
Invece, per un primo commento alla pronuncia n. 31 del 20 marzo 2025 della Consulta si veda: F. Micheli, Residenza decennale e reddito di cittadinanza. La Consulta dimezza il requisito (ma la questione resta aperta), in Massimario di giurisprudenza del lavoro, n. 2/2025, pp. 463 ss.
[5] Corte Cost, sent. n. 31/2025.
[6] Così, testualmente, Cass. Pen. 23452/2025, cit. Si tratta di un principio di diritto implicitamente richiamato anche dalle pronunce successive, qui in analisi.
[7] In particolare, in Cass. Pen., n. 23449/2025, cit., la Corte ha ritenuto la persistente rilevanza penale delle condotte tenute dall’imputato che, al momento della richiesta, non possedeva il requisito della residenza continuativa in Italia negli ultimi due anni; in Cass. Pen., n. 23452/2025, cit., la Suprema Corte ha ritenuto tuttora penalmente rilevante una delle due condotte contestate all’imputata (la dichiarazione sul possesso del requisito di residenza decennale effettuata in data 7.5.2020, quando la predetta era in Italia da meno di cinque anni), mentre ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alla condotta di mendacio posta in essere in data 31 dicembre 2021 (quando, cioè, l’imputata aveva maturato il requisito della residenza quinquennale in Italia), assolvendo l’imputata “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” e, conseguentemente rideterminato la pena inflitta nei gradi di merito; in Cass. Pen., n. 27716/2025, cit., la Corte, ritenendo l’irrilevanza penale del falso commesso dall’imputato quando era in Italia da più di cinque anni, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata ai fini della verifica, nel merito, della continuità sul territorio degli ultimi due anni di residenza; in Cass. Pen., nn. 27725 e 27726/2025, cit., ha confermato la sentenza di condanna emessa nei gradi di merito, per falso commesso quando i richiedenti si trovavano sul territorio nazionale da meno di cinque anni, dichiarando l’inammissibilità dei ricorsi presentati.
[8] L. 197/2022, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025», in GU Serie Generale, n. 303 del 29 dicembre 2022, Suppl. Ordinario n. 43. Si veda, in particolare, l’art. 1, comma 318, che ha disposto che «a decorrere dal 1° gennaio 2024 gli articoli da 1 a 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, sono abrogati».
[9] Sul punto, che esorbita gli scopi della presente trattazione, si veda: G.L. Gatta, Reddito di cittadinanza e “abrogatio per aberratio” delle norme penali: tra abolitio criminis e possibili rimedi, in questa Rivista, 3/2023, pp. 69 ss,
[10] Sia consentito rinviare per la ricostruzione dei due orientamenti emersi sul punto in dottrina a: P. Brambilla, La natura discriminatoria del requisito della residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza, cit., pp. 95 ss.
[11] Si veda Cass. pen., Sez. un., 13 luglio 2023 n. 49686 (dep. 13 dicembre 2023), Giudice. Per un commento sulla pronuncia delle Sezioni Unite si rinvia, ex multis, a: E. Penco, Le Sezioni Unite sul delitto di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza: rileva solo il caso in cui la percezione del sussidio risulti indebita nell’an o nel quantum, in questa Rivista, 21 dicembre 2023; F. Lombardi, Le Sezioni unite sul falso finalizzato all’indebito ottenimento del reddito di cittadinanza, in Rivista Penale Diritto e Procedura, 9 gennaio 2024.
[12] Conforme: Cass. Pen., Sez. 3, n. 28877 del 5 luglio 2024, D’Aniello.
[13] Si veda sul punto anche Cass. Pen., Sez. 2, n. 23265 del 7 maggio 2024, El Hadraoui.
[14] Si occupano specificamente del tema dell’errore inescusabile sul diritto ad ottenere il beneficio le sentenze n. 27716/2025, cit.; n. 27725/2025, cit.; e n. 27726/2025, cit.
[15] Cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. 2, n. 23265/2024.
[16] Corte Cost., 23 marzo 1988, n. 364.
[17] Si veda specificamente sul punto: Cass. Pen., n. 27725/2025, cit., p. 11, che evidenzia come, nell’ipotesi di errore circa la sussistenza del diritto di percepire l’erogazione del sussidio “non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto”.
[18] Sul tema sia consentito ancora una volta il rinvio a P. Brambilla, La natura discriminatoria del requisito della residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza, cit., p. 109, dove sono ricostruite le perplessità e le critiche mosse dalla dottrina giuslavoristica in relazione alla presa di posizione della Consulta circa la natura mista del sussidio, già affermata dalla stessa Corte nel suo precedente sent. Corte Cost., 25.01.2022, n. 19.
[19] P. Brambilla, False dichiarazioni per ottenere il reddito di cittadinanza: profili di illegittimità del requisito soggettivo della residenza decennale in Italia per ottenere il beneficio e conseguenze in sede penale, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2, 2022, pp. 256 ss.
[20] Cass. SU, 27.9.2007, Magera, cit., dove, al punto n. 5 della motivazione, si legge che: “nell’ambito della fattispecie penale le norme extrapenali non svolgono tutte la stessa funzione […]; occorre operare una distinzione tra le norme integratrici della fattispecie penale e quelle che tali non possono essere considerate. […] una nuova legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo, solo se integra la fattispecie penale, venendo a partecipare della sua natura, e ciò avviene, come nel caso delle disposizioni definitorie, se la disposizione extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama”, come nel caso delle norme penali in bianco. Per approfondimenti si rinvia a: G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, cit., p. 245 ss.
[21] La Cassazione era giunta a conclusioni analoghe in un caso del tutto diverso per oggetto e fattispecie, relativo al divieto di reingresso sul territorio nazionale (art. 13, co. 13, t.u. imm.). Prima dell'introduzione della Legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha ridotto il termine di interdizione al reingresso da dieci a cinque anni, la giurisprudenza di legittimità, facendo applicazione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che aveva acquisito diretta efficacia nell’ordinamento nazionale a partire dal 25 dicembre 2010 per mancato adeguamento, aveva ritenuto che non fosse più previsto come reato il reingresso nel territorio dello Stato del soggetto già espulso e che si fosse verificato oltre il termine di cinque anni dall’avvenuta espulsione, perché la norma incriminatrice di cui all’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998 si poneva in contrasto, nella parte in cui fissava in dieci anni la durata del divieto, con l’art. 11, par. 2, della citata direttiva, secondo cui la durata del divieto non poteva superare i cinque anni (cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. prima, n. 12220 del 13 marzo 2012 – dep. il 2 aprile 2012, con commento di G. Leo, Non più sanzionabili le condotte di indebito reingresso nel territorio dello Stato da parte degli stranieri espulsi da più di cinque anni, in Dir. Pen. Cont., 5 aprile 2012).
[22] Cass. pen., Sez. un., 13 luglio 2023 n. 49686, cit.
[23] P. Brambilla, False dichiarazioni per ottenere il reddito di cittadinanza, cit.
[24] Tale orientamento giurisprudenziale distingue, da un lato, le norme extrapenali considerate integratrici del precetto penale (in quanto da esso richiamate, anche implicitamente, e pertanto qualificate come vere e proprie norme penali, con la conseguente applicazione dell’art. 5 c.p., rispetto a cui l’errore, di regola, non scusa); dall’altro, le norme extrapenali non integratrici (ossia disposizioni originariamente destinate a regolare rapporti estranei al diritto penale e non recepite dalla norma incriminatrice), rispetto alle quali l’errore rileva ai sensi dell’art. 47, comma 3, c.p., escludendo la colpevolezza a titolo di dolo.
Nella manualistica, sull’applicabilità dell’art. 47, comma 3, c.p. all’ipotesi di errore su elementi normativi richiamati dalla fattispecie incriminatrice, si vedano, ex multis: G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto penale. Parte generale, XI ed., Milano, Giuffrè, 2022, p. 391 e G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale. Parte Generale, Bologna, Zanichelli, 2019, p. 402.
[25] D. Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 270 ss.; G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., p. 399; G. Leo, Art. 47 (C), in Codice penale commentato, tomo I, a cura di E. Dolcini, G.L. Gatta, Milano, Ipsoa, 2021, p. 750.
[26] In dottrina, nella manualistica, si rinvia per tutti a G. Fiandaca, E. Musco, op. cit.., p. 404; in giurisprudenza cfr. ex multis: Cass. Pen., sez. III, 3.1.1992.
[27] Cfr. Cfr. Gup Asti, sent. n. 433 del 26 settembre 2022; Gup Venezia, sent. n. 355 del 24 maggio 2022; Gup Verbania, sent. n. 300 del 16 novembre 2022; le sentenze sono pubblicate sul sito internet di ASGI al link: Reddito di cittadinanza e reato di falsa dichiarazione: depositate sentenze di non luogo a procedere e assoluzione - Asgi ; Cfr. Gup Asti, sent. n. 208 del 26 aprile 2022; il testo della pronuncia è pubblicato sul sito internet di ASGI al link: Reddito di cittadinanza e reato di falsa dichiarazione: depositate sentenze di non luogo a procedere e assoluzione - Asgi; GUP Vercelli, 11.10.2022, dep. 2.11.2022, n. 313, in questa Rivista, con scheda di P. Brambilla, False dichiarazioni per l’ottenimento del Reddito di cittadinanza e ignoranza inevitabile della legge penale, 13 gennaio 2023.