Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Margherita Ricci (artt. 3 e 8 Cedu, art. 1 Prot. add. Cedu) e Francesca Ertola (artt. 6 e 8 Cedu).
In settembre abbiamo selezionato pronunce relative a: maltrattamenti durante manifestazione di protesta e obblighi procedurali (art. 3 Cedu); violenza domestica (art. 3 e 8 Cedu); garanzie processuali per l’irrogazione di sanzioni amministrative punitive (art. 6 Cedu); utilizzo di intercettazioni illegittime per contestare le affermazioni dell’imputato (art. 6 Cedu); pubblicazione di intercettazioni di conversazione con soggetto estraneo all’indagine (art. 8 Cedu); confisca di prevenzione (art. 1 Prot. Add. Cedu).
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. IV, 16 settembre 2025, C. c. Romania
Maltrattamenti durante manifestazione di protesta – indagini inefficaci – Violazione
Il ricorrente C. lamentava l’inefficacia dell’indagine svolta dalla Romania sui maltrattamenti che aveva subito nel dicembre del 1989 durante le manifestazioni occorse a Bucarest contro il regime di Ceaușescu. C., in particolare, evidenziava che intorno alle 9 di sera del 21 dicembre del 1989 aveva deciso di partecipare alle suddette proteste insieme alla moglie. Tuttavia, mentre, essi si trovavano per strada, in prossimità di Piazza dell’Università, erano stati fermati e picchiati dai militari, arrestati e portati con forza alla stazione centrale della polizia, dove C. era stato nuovamente aggredito riportando diverse lesioni. Dopo tali aggressioni, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1989, era stato portato presso la prigione di Jilava, da cui era stato liberato soltanto alle 4 del pomeriggio del 22 dicembre 1989. Nel 1990, la procura militare presso l’Alta Corte di Cassazione e di Giustizia aveva aperto un’indagine sui maltrattamenti e le lesioni subite – tra gli altri – anche dal ricorrente nel dicembre del 1989. Tale indagine era stata registrata con il numero di fascicolo 97/P/1990 (§ 6). Per questi fatti (e, segnatamente, per arresto illegale e sequestro di persona) era stata aperta anche un’altra indagine, conclusasi con il rinvio a giudizio di molti funzionari militari e la loro successiva condanna avvenuta 10 maggio 1991 da parte della Suprema Corte di Giustizia. Tuttavia, la vicenda riguardante C. non era stata oggetto di tale indagine, ma soltanto di quella avente numero di fascicolo 97/P/1990 (§ 8). Ebbene, a seguito di specifica richiesta di C., il 2 gennaio 2006, la procura militare presso l’Alta Corte di Cassazione e di Giustizia aveva informato quest’ultimo del fatto che, secondo il fascicolo n. 97/P/1990, il 21 dicembre 1989 egli era stato picchiato e illegalmente privato della propria libertà personale fino al giorno successivo in quanto stava manifestando in Piazza dell’Università contro il regime comunista. Il ricorrente, nel corso del procedimento penale, era stato ascoltato in qualità di parte lesa in diverse occasioni (tra cui, il 21 febbraio 1990 e il 20 ottobre 1992), mentre il 16 gennaio 2006 aveva chiesto di costituirsi parte civile (§ 12).Il 10 agosto 2018 C. aveva reso nuove dichiarazioni sugli eventi del dicembre del 1989; tuttavia, alla fine della sua deposizione aveva dichiarato di non voler più partecipare al procedimento penale né come persona offesa né come parte civile. Di conseguenza, la dichiarazione resa da C. quel giorno era stata classificata quale mera testimonianza (§§ 14 e s.). In ogni caso, il 5 aprile 2019 la procura militare aveva interrotto le indagini per i fatti posti in essere dagli esponenti del regime comunista a danno di 627 feriti, tra cui anche del ricorrente (§ 18). Davanti ai giudici di Strasburgo, C. lamentava che l’indagine penale condotta fino al 10 agosto 2018 in relazione ai maltrattamenti cui era stato sottoposto nel dicembre 1989 non fosse stata efficace, circostanza che si era tradotta in una patente lesione dell’art. 3 CEDU. Lo Stato rumeno evidenziava, invece, l’inammissibilità del ricorso di C. in quanto questi aveva perso la qualifica di “vittima” prima che la Romania ratificasse la CEDU e, in particolare, a seguito della chiusura della seconda indagine (ossia di quella che, il 10 maggio 1991, aveva portato alla condanna di molti funzionari militari). C., però, lamentava la non ricomprensione della sua vicenda in tale indagine, ma in quella avente numero di fascicolo 97/P/1990, la quale era ancora in corso a momento della presentazione del suo ricorso davanti alla Corte EDU. A fronte di tali questioni preliminari, i giudici di Strasburgo premettevano di essere competenti ad esaminare tutti i ricorsi per violazione dell’art. 3 CEDU, presentati in relazione ai fatti occorsi in Romania nel dicembre del 1989, ove la maggior parte delle relative indagini fosse stata svolta dopo la ratifica della CEDU da parte della Romania (§ 25). Inoltre, secondo la Corte EDU, C. non aveva perso la qualifica di “vittima” in quanto questi aveva partecipato alla prima indagine e non alla seconda. Non solo, il ricorrente non aveva perso tale qualifica neppure quando il 10 agosto 2018 aveva dichiarato che – pro futuro – avrebbe partecipato al procedimento soltanto come testimone (§§ 27 e s.). In punto di merito, invece, i giudici di Strasburgo evidenziavamo prima di tutto che lo Stato rumeno non aveva contestato quanto subito da C. nel dicembre del 1989. Tenuto conto di questo, le denunce mosse da C. erano sufficienti a fare scattare in capo alla Romania l’obbligo di garantire un’indagine efficace ai sensi dell'articolo 3 CEDU (§ 32). Ebbene, atteso che l’indagine avente numero di fascicolo 97/P/1990, come dalla Corte EDU già evidenziato in procedimenti similari, era affetta da vizi procedurali a causa della sua eccessiva durata, dei lunghi periodi di inattività, nonché della mancanza di informazioni fornite al pubblico sullo stato di avanzamento dell’inchiesta, era evidente che la Romania non avesse rispettato gli standard procedurali richiesti dall’art. 3 CEDU (§ 33). Tutto ciò, quindi, aveva reso inefficace l’indagine svolta dalla Romania sui maltrattamenti subiti dal ricorrente. (Margherita Ricci)
Riferimenti bibliografici: F. Ertola, Il diritto alla giurisdizione della vittima del reato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2025, 1, pp. 358 e ss.; P. Bernardoni, Il MAE all’esame della Corte EDU: un passo ulteriore verso il “diritto costituzionale applicato” europeo?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 3, pp. 1137 e ss.; G. Caneschi, Prova ottenuta attraverso trattamenti inumani o degradanti ed equità processuale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 2, pp. 731 e ss.
ARTT. 3 e 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. I, 23 settembre 2025, S. c. Italia
Violenza domestica – Obblighi positivi di protezione – Mancanza di una valutazione completa del rischio – Violazione –
Violenza domestica – Obblighi procedurali sul versante civile e penale – Ritardi e omissioni – Violazione
La ricorrente lamentava la lesione da parte dello Stato italiano degli artt. 3 e 8 CEDU in quanto, nonostante le violenze e le molestie da lei subite per mano del suo ex compagno, il processo penale contro quest’ultimo si era chiuso con l’assoluzione, e il tribunale civile aveva anche rigettato la richiesta di ordinanza di protezione. I fatti riguardavano S., sposata dal 2012 con G.C., dal quale lo stesso anno aveva avuto D. Nel 2017, però, i due si erano separati; ciononostante, avevano continuato a convivere nella stessa casa. Il 22 febbraio 2018, la ricorrente aveva adito il tribunale civile per denunciare i maltrattamenti da lei subiti, anche in presenza del figlio, per mano di G.C. e, conseguentemente, per chiedere, ai sensi degli artt. 316, 317 bis e 337 ter c.c., l’affidamento esclusivo del figlio minore. Secondo la ricostruzione della donna, G.C. aveva minacciato di portarle via il bambino, le aveva impedito l’accesso ad alcune parti della casa e l’aveva costretta a rimanere sveglia durante la notte, tenendo una luce puntata su di lei. Il tribunale aveva fissato la prima udienza per il 29 novembre 2018, ovvero nove mesi dopo la presentazione dell’azione civile (§ 8). Tenuto conto delle tempistiche di tale azione, l’11 luglio 2018 la ricorrente si era rivolta al tribunale civile per ottenere una misura di protezione ai sensi dell’art. 342 bis c.c., richiesta respinta sulla scorta del fatto che le accuse mosse dalla donna verso G.G. riguardavano episodi accaduti in assenza di testimoni (§§ 10 e s.). Intanto, nell’ambito del procedimento principale, nonostante un’assistente sociale incaricata dal tribunale avesse chiesto di adottare misure urgenti per la protezione del bambino, all'udienza del 20 agosto 2018 era stato confermato l’affidamento congiunto di D. ai genitori (§§ 14 e s.). Sul fronte penale, invece, visto l’aggravarsi dei comportamenti tenuti dall’ex compagno, S. aveva presentato una denuncia per maltrattamenti in data 26 marzo 2018, sostenendo – inter alia – che l’uomo si era collegato illegalmente ai suoi account di posta, aveva installato telecamere in casa per sorvegliarne i movimenti, aveva minacciato di gettarne gli oggetti personali in strada e le aveva impedito di dormire, esponendola per tutta la notte a luci intense e al rumore incessante dei videogiochi. Il 29 aprile 2018, la ricorrente aveva informato G.C. della sua decisione di partire con il bambino per alcuni giorni; di fronte a tale notizia, l’uomo l’aveva chiusa a chiave e l’aveva afferrata per i capelli provocandole delle lesioni (§ 24). Nel giugno del 2018, S. si era recata presso un centro antiviolenza e, sulla base dei protocolli S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment), era stata confermata la necessità di adottare con urgenza misure restrittive nei confronti di G.C. e misure di protezione a favore della ricorrente (§ 33). Il 27 febbraio 2019, G.C. era stato rinviato a giudizio per maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, atti persecutori e tentata estorsione. Nel processo penale la ricorrente si era costituita parte civile (§§ 37 e s.). Con sentenza del 22 giugno 2023, però, il tribunale aveva assolto G.C. da tutti i capi di imputazione. In particolare, per quanto di interesse in questa sede, secondo il tribunale i comportamenti di G.C. non avevano avuto carattere abituale e, in ogni caso, si erano concretati perlopiù in insulti e critiche contro S. Pertanto, non si sarebbe configurato il delitto di cui all’art. 572 c.p. Per quanto riguarda le lesioni, inoltre, mancavano prove sufficienti in ordine all’eziologia del trauma riportato da S. Da ultimo, rispetto all’accusa di atti persecutori, il tribunale evidenziava che, da quando era cessata la convivenza tra le parti, era cessato anche ogni comportamento molesto di G.C. contro S. (§§ 44 e s.). A seguito dell’assoluzione di G.C., la ricorrente aveva rinunciato a presentare ricorso in sede civile per ottenere un eventuale risarcimento del danno da reato, ma aveva sollecitato il procuratore ad appellare la suddetta sentenza penale. Tuttavia, tale richiesta era stata respinta in quanto, secondo la procura, i comportamenti tenuti da G.C. risultavano sprovvisti di rilevanza penale (§§ 48 e ss.). Così ricostruiti i fatti, è ora possibile concentrarsi sul ricorso mosso da S. davanti alla Corte EDU, da esaminarsi alla luce degli artt. 3 e 8 CEDU (§ 63). Lo Stato italiano eccepiva il non esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto S., ai sensi dell’art. 576 c.p.p., avrebbe potuto impugnare la sentenza di assoluzione al fine di far accertare la responsabilità civile di G.C. Per contro, la ricorrente lamentava l’inefficacia dell’indagine penale e il mancato adempimento da parte delle autorità dell’obbligo su di queste gravante di proteggerla (§§ 69 e ss.). Secondo la Corte EDU, gli artt. 2, 3 e 8 CEDU impongono agli Stati – tra le altre cose – anche l’obbligo di condurre indagini effettive (cioè, tra l’altro, rapide ed approfondite) su tutti gli atti di violenza domestica (§ 91). Nel caso di specie, invece, nonostante la gravità dei fatti denunciati dalla ricorrente, i giudici civili avevano fissato la prima udienza per la custodia del figlio a nove mesi dalla data di presentazione del ricorso. Non solo, l’ordinanza di protezione richiesta da S. era stata negata senza che fosse stata effettuata alcuna valutazione del rischio cui la donna era effettivamente esposta, sul principio che si trattasse di una situazione di conflitto dovuta alla sola fase di separazione con G.C. (§§ 97 e ss.). Per contro, per i giudici di Strasburgo, le informazioni disponibili erano tali da indicare l’esistenza di un rischio reale e immediato di ulteriori violenze contro la ricorrente, per cui era evidente che le autorità non avessero agito con la dovuta diligenza (§ 106). Tali problematiche erano ravvisabili anche in relazione al procedimento penale atteso che la denuncia della donna era stata registrata dopo due mesi dalla presentazione, G.C. era stato rinviato a giudizio dopo un anno dalla denuncia, mentre il processo di primo grado era iniziato dopo due anni e terminato in quattro anni (tra l’altro, con numerosi cambi di giudice) (§§ 109 e ss.). Il suddetto ritardo, secondo i giudici di Strasburgo, aveva evidentemente danneggiato l’efficacia complessiva dell’indagine e si era conseguentemente tradotto in una lesione degli artt. 3 e 8 CEDU (§§ 112 e ss.). (Margherita Ricci)
Riferimenti bibliografici: S. Anastasi, Violenza di genere: obblighi di protezione delle vittime, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2025, 2, pp. 639 e ss.; F. Ertola, Il diritto alla giurisdizione della vittima del reato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2025, 1, pp. 358 e ss.; N.M. Maiello, La Corte EDU condanna l’Italia per violazione degli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita in un caso di violenza domestica, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1369 e ss.; E. Zuffada, Da Strasburgo una sentenza pilota contro la Russia in materia di violenza domestica, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 2, pp. 910 e ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 4, pp. 2112 e ss.; R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 3, pp. 1192 e ss.
Art. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, com. sez. I, sent. 11 settembre 2025, Mereghetti c. Italia
Equità processuale – procedimenti sanzionatori formalmente amministrativi ma sostanzialmente penali – indipendenza e imparzialità dell’autorità amministrativa – commistione tra funzioni istruttorie e decisorie – mancata celebrazione di un’udienza pubblica in Corte d’appello – violazione
Il caso riguarda l’equità complessiva del procedimento sanzionatorio svoltosi dinanzi alla Banca d’Italia e l’assenza di un’udienza pubblica nel corso del successivo riesame giurisdizionale di competenza della corte d’appello. Muovendo dai criteri Engel, la C.edu ha riqualificato come sostanzialmente penali le sanzioni previste per la violazione delle norme sulla gestione delle attività bancarie e finanziarie, evidenziando l’assenza dei requisiti di imparzialità e indipendenza in capo all’autorità amministrativa, chiamata a svolgere – simultaneamente – funzioni istruttorie e funzioni decisorie (§ 17). Sebbene le sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia siano soggette a un controllo da parte di un organo giudiziario, all’epoca dei fatti, l’art. 195 comma 7 d.lgs. n. 58 del 1998 stabiliva che l’udienza dinnanzi alla corte d’appello dovesse tenersi camera di consiglio, senza assicurare la partecipazione di soggetti esterni. L’udienza pubblica svoltasi in Cassazione non ha consentito di colmare il deficit di garanzia, trattandosi di un giudizio non esteso al merito (§ 20-22). Da qui, la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Francesca Ertola)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 16 settembre 2025, Seppern c. Estonia
Equità processuale – utilizzo indiretto di prove vietate per valutare la credibilità del ricorrente – contestazioni probatorie – dichiarazioni dell’imputato ritenute inattendibili in ragione delle risultanze ottenute tramite intercettazioni illegittime – adeguati fattori di bilanciamento – non violazione
Nel corso del controesame dibattimentale, la pubblica accusa ha utilizzato alcuni estratti di trascrizioni di intercettazioni irrituali per contestare le affermazioni dell’imputato. Pur ritenendo inammissibili i risultati dell’attività di captazione, le corti interne hanno valorizzato le incongruenze tra le dichiarazioni rese durante il processo e il contenuto delle comunicazioni intercettate, al fine di valutare la credibilità del ricorrente. Chiamata a valutare la violazione dell’art. 6 Cedu, la Corte europea ricorda come non rientri tra i suoi compiti quello di sindacare se una prova sia stata correttamente ammessa, assunta o valutata, dovendosi limitare a verificare se il processo celebratosi dinnanzi alle autorità nazionali possa considerarsi complessivamente equo, tenendo conto di adeguati fattori di bilanciamento, quali il rispetto del diritto di difesa e la presenza di altre fonti di convincimento (§ 34-41). Nel caso di specie, l’utilizzo indiretto di prove vietate non ha compromesso l’equità del procedimento dal momento che all’imputato è stata comunque offerta la possibilità di spiegare il motivo di tali discrepanze e di opporsi all’impiego degli estratti delle trascrizioni, nel rispetto dei principi del contraddittorio e della parità delle armi (§ 51). La condanna si è inoltre basata su un ampio compendio probatorio e i giudici interni non hanno mai avuto accesso al contenuto integrale delle trascrizioni illegittime (§ 52). È stata così esclusa la violazione dell’art. 6 Cedu. (Francesca Ertola)
Riferimenti bibliografici: P. Zoerle, Dichiarazioni estorte da privati sotto tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 328 ss.
Art. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 11 settembre 2025, Charki c. Francia
Diritto al rispetto della vita privata e familiare – pubblicazione su quotidiani nazionali di conversazioni tra la ricorrente e suo padre, ex Ministro dell'Interno – intercettazioni legittime – le trascrizioni pubblicate non riguardavano aspetti della vita personale– corretto bilanciamento tra interessi contrapposti – non violazione
La ricorrente, figlia dell’ex ministro degli interni francese, lamenta la lesione del suo diritto alla riservatezza a seguito della pubblicazione, su un quotidiano nazionale, di conversazioni private tra lei e suo padre, ex ministro dell’interno francese, coinvolto in uno scandalo per finanziamenti illeciti. Adita per violazione dell’art. 8 Cedu, la Corte europea osserva come le conversazioni pubblicate, legittimamente intercettate all’interno di un procedimento penale, riguardassero le preoccupazioni del padre rispetto alla notizia dell’avvio delle indagini e il suo sgomento per la mancanza di sostegno da parte dei suoi alleati. Secondo i giudici europei, l’oggetto delle trascrizioni riguardava una questione di interesse generale non direttamente attinente alla vita personale della ricorrente, ma piuttosto la vita politica del padre, importante personaggio pubblico (§ 57-59). Inoltre, i giornalisti hanno riportato fedelmente il contenuto delle conversazioni senza travisarne il senso, così adempiendo al loro dovere di corretta informazione, pur avendo coinvolto un soggetto formalmente estraneo alle indagini. Considerando il bilanciamento tra interessi contrapposti, l’ingerenza nella riservatezza della ricorrente deve pertanto considerarsi proporzionata e necessaria in una società democratica. Si è così esclusa la violazione dell’art. 8 Cedu. (Francesca Ertola)
Riferimenti bibliografici: F. Manfrin, Le vite degli altri: Italia condannata per intercettazioni di terzi non indagati, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1241 ss.; F. Ertola, Ambiti di tutela della privatezza, ivi, 2022, p. 1745 ss.
ART. 1 PROT. ADD. CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. I, 25 settembre 2025, Isaia e altri c. Italia
Pacifico godimento dei beni – Sproporzione della confisca di prevenzione operata sui beni dei ricorrenti, considerati provento delle attività illecite commesse o presumibilmente commesse dal primo ricorrente – Eccessivo trascorso di tempo dalla commissione dei reati su cui si basa la confisca di prevenzione – Mancata dimostrazione da parte delle autorità nazionali di un collegamento tra le attività criminali del primo ricorrente e i beni confiscati – Violazione
I ricorrenti adivano la Corte EDU lamentando di avere subito l’illegittima confisca dei propri beni ai sensi dell’art. 24 del d. lgs. n. 159/2011 (cd. Codice antimafia e delle misure di prevenzione, d’ora in poi – per brevità – solo “Codice antimafia”). In particolare, in luce della condizione di “pericolosità generica” ex art. 1, co. 1, lett. b del Codice antimafia, ravvisata dal Questore di Palermo in capo a G.I., il quale dal 1980 al 2008 aveva abitualmente vissuto, in tutto o in parte, con i proventi delle proprie attività delittuose, il Tribunale di Palermo – in data 4.8.2020 – aveva disposto la confisca dei beni appartenenti al proposto e, ex art. 26 del Codice antimafia, anche dei beni appartenenti a sua moglie e al figlio. Tali beni, infatti, ancorché entrati nel patrimonio dei ricorrenti in data successiva alla cessazione della pericolosità generica del proposto, risultavano sproporzionati in valore rispetto ai loro redditi ovvero acquistati con i proventi delle attività illecite poste in essere da G.I. tra il 1980 e il 2008. I ricorrenti avevano appellato tale decisione eccependo (i) che la pericolosità generica di G.I. andava circoscritta al periodo compreso tra il 1980 e il 1998 e (ii) che essi disponevano di risorse sufficienti per acquistare lecitamente i beni loro confiscati (§ 13). La Corte d’Appello di Palermo, però, aveva rigettato tale gravame sulla scorta del principio per cui, in materia di confisca di prevenzione, spetta al proposto fornire la prova dell’origine lecita dei propri beni, non potendosi quest’ultimo limitare a generiche allegazioni sul punto (§ 16). A seguito di ciò, in data 19.5.2021, G.I. e i suoi familiari avevano presentato ricorso per Cassazione sostenendo che fosse impossibile ritenere provento di attività illecita i beni da loro acquistati dopo il 2008. Tale tesi era stata sostenuta anche dall’Avvocato Generale della Corte di Cassazione, secondo il quale, per quanto possano essere confiscati anche i beni acquistati dopo la cessazione dello stato di pericolosità generica del proposto, occorre tuttavia dimostrare che tali beni sono stati pagati con il provento della pregressa attività criminale, incorrendosi – in caso contrario – nella lesione del principio di correlazione temporale tra acquisto dei beni e manifestazione della pericolosità sociale (cd. “perimetrazione cronologica”) (§ 18). Nonostante la posizione dell’Avvocato Generale, il 7.4.2022, la Corte di Cassazione aveva rigettato il ricorso ritenendo sufficientemente provato che i beni confiscati fossero il provento della pregressa attività criminale di G.I. A questo punto, G.I., sua moglie e il figlio avevano adito la Corte EDU rappresentando la violazione dell’art. 6 CEDU in quanto la confisca di prevenzione dei beni era stata disposta senza che fossero stati rispettati i presupposti di legge, come interpretati dalla giurisprudenza nazionale (§ 35). Secondo la Corte EDU il loro ricorso era ammissibile, ma la sussistenza della lamentata lesione andava vagliata rispetto al dettato dell’art. 1 del Protocollo Addizionale che, come noto, sancisce il principio di intangibilità della proprietà privata (§ 36). Ciò chiarito rispetto al parametro normativo di riferimento, i ricorrenti evidenziavano che la pericolosità generica di G.I. era cessata ben prima del 2008, avendo quest’ultimo commesso reati contro il patrimonio soltanto tra il 1980 e il 1998, mentre nel 2008 si era limitato ad un tentativo di furto. Aggiungevano, inoltre, che i giudici italiani non avevano rispettato il criterio della perimetrazione cronologica, atteso che tutti i beni confiscati erano stati acquistati dopo il 2008 (e, segnatamente, nel 2010, 2014, 2016 e 2018) (§ 47). Per contro, secondo lo Stato italiano, non vi era stata alcuna violazione della normativa nazionale in materia di confisca di prevenzione in quanto (i) tra il 1980 e il 1998 e, ancora, nel 2008, G.I. aveva commesso numerosi reati lucro-genetici, (ii) nei suddetti periodi, tali reati avevano rappresentato la principale fonte di approvvigionamento economico del proposto e (iii) i beni confiscati erano stati acquistati proprio con la provvista illecitamente accumulata da G.I. mentre era pericoloso (§§ 49 e ss.). D’altra parte, secondo lo Stato italiano, tale ricostruzione trovava puntuale conferma nel fatto che G.I. non aveva fornito alcuna prova in ordine alla lecita provenienza del denaro utilizzato per acquistare i beni confiscati a lui e ai suoi più stretti familiari. Ebbene, i giudici di Strasburgo premettevano che è pacifico che il pieno godimento della proprietà possa essere limitato nei casi previsti dalla legge e aggiungevano che, tra tali ipotesi, rientra anche la confisca di prevenzione, non potendosi in alcun modo tollerare che il crimine “paghi” (§§ 66 e ss.). Nel caso di specie, però, per la Corte EDU, non vi era alcuna ragione idonea a spiegare perché il procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale fosse cominciato ben dieci anni dopo che G.I. aveva cessato di essere pericoloso. Non solo, i giudici di Strasburgo rilevavano una carenza motivazionale, non avendo i giudici italiani adeguatamente accertato l’ammontare dei proventi ottenuti da G.I. tramite la sua attività criminale. Sul punto, infatti, non si poteva ignorare che alcuni dei reati contro il patrimonio a lui ascritti (da ultimo, nel 2008) risultavano contestati soltanto in forma tentata, circostanza cui – ontologicamente – non poteva essere seguito alcun profitto (§§ 82 e ss.). Non si poteva neppure ignorare il fatto che i beni confiscati fossero stati acquistati molti anni dopo che G.I. aveva posto in essere reati lucro-genetici (§ 84). Né, al riguardo, i giudici italiani avevano effettuato un puntuale controllo per accertare se tali beni fossero stati effettivamente acquistati con il provento dei reati posti in essere quando il proposto era pericoloso. La Corte EDU concludeva, quindi, osservando come in questo caso, ai fini della confisca, i giudici italiani si erano accontentati della sola incapacità di G.I. e dei suoi familiari di fornire adeguate prove in ordine alla liceità della provvista utilizzata per porre in essere i contestati acquisti. In particolare, la Corte ribadiva come la sussistenza della sola sproporzione patrimoniale sia parametro insufficiente per giustificare l’ablazione patrimoniale. Non solo, visto che tutti i beni confiscati appartenevano alla moglie e al figlio di G.I., i giudici di Strasburgo evidenziavano anche un’ulteriore carenza motivazionale, non essendo stata in alcun modo provata l’interposizione fittizia (§§ 89 e ss.). In luce di queste carenze, per la Corte EDU, la decisione assunta dai giudici italiani contro i ricorrenti violava la normativa nazionale con riferimento a (i) l’identificazione dei reati lucro-genetici posti in essere da G.I., (ii) la perimetrazione cronologica tra l’acquisto dei beni e la manifestazione della pericolosità sociale del proposto e (iii) la prova dell’interposizione fittizia della moglie e del figlio di G.I. Le suddette ragioni comportavano, quindi, una patente violazione dell’art. 1 del Protocollo Addizionale (§ 91). Ad ogni buon conto, per i giudici di Strasburgo, a tale conclusione portava già il fatto che il procedimento ablatorio fosse iniziato molti anni dopo che G.I. aveva commesso gli ultimi fatti costituenti reato. Per queste ragioni, nel caso di specie, la limitazione al godimento della proprietà patita dai ricorrenti risultava sproporzionata e, secondo la Corte EDU, lo Stato italiano avrebbe dovuto valutare la possibilità di restituire ai ricorrenti i beni loro confiscati ovvero, in caso di impossibilità della restituzione, di corrisponderli il relativo valore (§§ 99 e ss.). (Margherita Ricci)
M. Pisati, Archiviazione, confisca e presunzione d’innocenza, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2025, 1, pp. 366 e ss.; V. Sirello, A proposito di sequestri, confische e tutela dei diritti del terzo di buona fede, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2023, 1, pp. 310 e ss.; T. Trinchera, Una pronuncia della Corte di Giustizia UE in tema di confisca nei confronti del terzo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 1, pp. 580 e ss.; T. Trinchera, Confisca senza condanna e diritto dell’Unione Europea: nessun vincolo per il legislatore nazionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 3, pp. 1637 e ss.; E. Zuffada, La Corte Europea giudica compatibile con la convenzione la confisca del profitto del reato anche in assenza di condanna, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 1, pp. 380 e ss.